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Puskin
di
Fedor
Michajlovic Dostoevskij
Questo è il
discorso pronunziato l'8 giugno 1880 alla seduta solenne della "Società
degli amici della letteratura russa" a Mosca in occasione
dell'inaugurazione del monumento a Puskin.
Puskin è un fenomeno straordinario, e forse un
fenomeno unico dell'anima russa, come ha detto Gogol'. Aggiungerò da parte mia:
un fenomeno anche profetico. Sì, nella sua apparizione è racchiusa per tutti
noi, russi, qualcosa di indiscutibilmente profetico. Puskin appare proprio al
principio della nostra vera autocoscienza, nata e cominciata appena nella nostra
società, dopo un intero secolo dalle riforme di Pietro, e la sua apparizione
contribuisce fortemente ad illuminare di una nuova luce il nostro buio cammino.
In questo senso appunto Puskin è guida e profeta.
Io divido l'attività del nostro grande poeta in tre
periodi. Io non parlo qui come critico letterario: per ciò che si riferisce
all'attività creatrice di Puskin, io voglio semplicemente chiarire il mio
pensiero sul suo significato profetico per noi, e spiegare che cosa io intenda
con tale parola. Noterò, di passaggio, che i periodi dell'attività di Puskin
non hanno tra di loro dei limiti ben determinati. Il principio di Onegin,
per esempio, appartiene ancora, secondo me, al primo periodo, quando Puskin
aveva già trovato i suoi ideali nella terra patria, concependoli ed amandoli
con tutta la sua anima amante e veggente. Si suol dire che nel primo periodo
della sua attività Puskin abbia imitato i poeti europei: Parny, Andrea Chenier
ed altri e specialmente Byron. Sì, senza dubbio i poeti europei ebbero una
grande influenza sullo sviluppo del suo genio e conservarono questa loro
influenza fino alla fine della sua vita. Ciò nondimeno, anche i primissimi
poemi di Puskin non furono soltanto imitazione; in essi era espressa già la
straordinaria indipendenza del suo genio. Nelle imitazioni non si manifesta mai
tanta indipendenza di sofferenza e profondità di autocoscienza, quanta egli ne
espresse, per esempio, ne Gli zingari,
poema che io considero ancora come appartenente pienamente al primo periodo
della sua attività creatrice. Non parlo già della forza creatrice e del suo
impeto, che non sarebbero apparsi in così grande misura, se egli avesse
soltanto imitato. Nel tipo di Aleko, l'eroe del poema Gli
zingari, è accennata già quella idea potente e profonda e così
completamente russa, che trova poi la sua espressione in una così armonica
completezza nell'Onegin, in cui quasi
lo stesso Aleko appare non più in una luce fantastica, ma nella realtà
palpabile. In Aleko, Puskin ha già trovato e genialmente messo in rilievo quel
tipo di vagabondo, infelice nella sua stessa patria, quello storico martire
russo, la cui apparizione era storicamente inevitabile nella nostra società così
staccata dal popolo. E non fu certo in Byron che egli lo trovò. È questo un
tipo irrefutabilmente preso dalla vita reale, che si incontra continuamente,
perché da lungo tempo si è stabilito nella nostra terra russa. Questi
vagabondi russi senza tetto continuano ancora oggi la loro vita randagia e non
scompariranno a quanto pare tanto presto. E se essi non vanno più, ai tempi
nostri, negli accampamenti degli zingari, a cercare presso di questi, nel loro
originale selvaggio modo di vivere, i loro ideali universali e il riposo nel
grembo della natura, dalla vita intricata ed assurda della nostra società
intellettuale, si danno in compenso al socialismo, che non esisteva ancora ai
tempi di Aleko e vanno con una fede nuova nel nuovo campo da coltivare e
lavorano in esso zelantemente, con la fede, che animava anche Aleko, di
raggiungere nella loro fantastica attività, i propri fini e la felicità non
soltanto per sé, ma per tutto il mondo.
Perché il vagabondo russo ha bisogno precisamente
della felicità universale per essere soddisfatto: a minor prezzo egli non si
riconcilia - si capisce che finora si tratta solo di teoria. È sempre lo stesso
uomo russo, soltanto apparso in tempi diversi. Questo uomo, ripeto, è nato
proprio al principio del secondo secolo dopo le grandi riforme di Pietro, nella
nostra società intellettuale, staccatasi dal popolo e dalla forza del popolo.
Oh, la grande maggioranza degli intellettuali russi, come al tempo di Puskin
anche ora si contentano di servire pacificamente come impiegati o nella
tesoreria o nelle strade ferrate o nelle banche, o semplicemente di guadagnare
danaro con i mezzi più diversi ed eventualmente di occuparsi anche di scienze e
di far conferenze; tutto questo regolarmente, pigramente e pacificamente,
prendendosi lo stipendio, giocando a carte, senza alcuna tentazione di correre
negli accampamenti degli zingari o in qualche luogo più rispondente ai nostri
tempi. Tutt'al più si atteggeranno
a liberali con una "sfumatura di socialismo europeo", aggiungendovi
solo un certo bonario carattere russo - ma tutto questo non è che questione di
tempo. Che importa che uno non abbia ancora cominciato ad agitarsi, mentre un
altro è già arrivato alla porta chiusa e vi ha battuto contro con la fronte?
Ciò toccherà a tutti a suo tempo, se non si uscirà sulla via di salvezza
della umile unione col popolo. Ammettiamo anche che non tocchi a tutti: bastano
gli "eletti", basta la decima parte di quelli che hanno cominciato ad
agitarsi, perché anche l'enorme maggioranza dei rimanenti non trovi pace. Aleko,
certo, non sa ancora esprimere bene la sua angoscia: in lui tutto ciò è ancora
astratto, egli ha la nostalgia della natura, si lamenta della società mondana,
ha delle aspirazioni universali, piange per la verità perduta da qualcuno in
qualche luogo, e che egli non può in alcun modo trovare. C'è un po' di
Jean-Jacques Rousseau. In che consiste questa verità, dove e in che cosa essa
potrebbe apparire e quando precisamente sia stata perduta, egli stesso non ve lo
dirà, ma la sua sofferenza è sincera. L'uomo fantastico ed impaziente brama
intanto la salvezza soltanto dai fenomeni esteriori; così anche dev'essere:
"La verità, è forse fuori di lui, in altre terre, per esempio in quelle
europee, con la loro solida organizzazione storica, con la loro già stabilita
vita sociale?". E mai egli comprenderà che la verità è prima di tutto
dentro di lui; e come lo potrebbe capire? Egli è un estraneo nella sua stessa
terra, egli già da un secolo ha perduto l'abitudine del lavoro, non ha cultura,
è cresciuto come una signorina chiusa fra le quattro mura di un collegio, ha
adempiuti dei doveri strani e senza responsabilità, secondo la sua appartenenza
a questa o a quella delle quattordici classi in cui è divisa la nostra colta
società russa. Egli non è stato finora che un'erbetta in balia del vento. Ed
egli lo sente e ne soffre e spesso così tormentosamente! E che importa, se
appartenendo forse alla nobiltà ereditaria e possedendo perfino dei servi della
gleba, egli, per la libertà che gli vien dall'esser nobile, si è permessa la
piccola fantasia di lasciarsi attrarre dalla gente che vive "senza
legge" e di portare in giro l'orso? Naturalmente la donna, "la donna
selvaggia", secondo l'espressione di un poeta, poteva dargli la speranza di
una via d'uscita dalla sua malinconia, ed egli con una fede spensierata, si
sente attratto da Zenfira: "Ecco dov'è la via d'uscita, ecco dov'è forse
la mia felicità, qui, nel grembo della natura, lontano dal mondo, qui, presso
gli uomini che non conoscono civiltà e leggi!". Ed ecco ciò che ne
risulta: al primo suo urto con le condizioni di questa natura selvaggia egli non
resiste e si insanguina le mani. Non solo non è utile per l'armonia mondiale,
ma neanche per gli zingari, il disgraziato sognatore, ed essi lo scacciano,
senza vendetta, senza collera, alteri e franchi:
Lasciaci, uomo orgoglioso;
noi siamo selvaggi, non abbiamo leggi;
noi non torturiamo e non puniamo.
Tutto questo, certo, è fantastico, ma l'"uomo
orgoglioso" è reso con molta precisione. Bisogna ricordarsi che egli è
stato per la prima volta rappresentato da Puskin. Non appena quest'uomo ha
qualche cosa che non gli garba, colpisce e castiga con ira colui che l'offende,
oppure - ciò che è più comodo, - ricordandosi di appartenere ad una delle
quattordici classi, egli stesso forse (è capitato anche questo), si rivolgerà
alla legge, che tortura e castiga, e la chiamerà in suo aiuto, purché sia
vendicata la sua offesa personale. No, questo geniale poema non è
un'imitazione! Vi si ha già il presentimento della conclusione russa della
questione, "della maledetta questione", della fede e verità popolare:
"Diventa umile, uomo ozioso e prima di tutto lavora il tuo campo
paterno", ecco, questa è la soluzione del problema della verità popolare
e dell'intelligenza del popolo. "La verità non è al di fuori di te, ma in
te stesso, ritrova te in te stesso, sottometti te a te stesso, diventa padrone
di te, e tu vedrai la verità. Questa verità non è nelle cose, non è fuori di
te e non al di là di qualche mare, ma prima di tutto nel tuo proprio lavoro su
te stesso. Se ti vincerai e ti umilierai, diventerai libero, come non hai mai
immaginato che si possa essere, e inizierai la grande opera di dare la libertà
agli altri, e conoscerai la felicità, perché la tua vita si riempirà e tu
comprenderai finalmente il tuo popolo e la sua santa verità. Non è presso gli
zingari o dove che sia, l'armonia universale, se tu per primo non ne sei degno,
se sei cattivo e orgoglioso, ed esigi la vita gratis, senza offrire neppure ciò
che si deve pagare per essa".
Questa soluzione della questione è già suggerita
dal poema di Puskin. Ancora più chiaramente essa è espressa nell'Evgenij
Onegin, poema non più fantastico, ma palpabilmente reale, nel quale è
incarnata la vera vita russa, con una tale forza creativa e con una tale
perfezione, quale non era mai esistita prima di Puskin, e forse neppure dopo di
lui. Onegin arriva da Pietroburgo -infallibilmente da Pietroburgo, era
indubbiamente necessario che fosse così: nel suo poema Puskin non poteva
lasciarsi sfuggire un elemento così reale e importante della biografia del suo
eroe. Ripeto di nuovo, è ancora lo stesso Aleko, specialmente quando esclama
con tristezza:
Perché, come l'assessore di Tula,
non sono a letto con la paralisi?
Ma adesso, al principio del poema, egli è ancora per
metà un fatto mondano, e ha vissuto ancora troppo poco, per essere già
completamente deluso della vita. Ma già comincia a visitarlo
Il nobile demonio della noia segreta
Nel cuore della sua stessa patria, egli si sente come
in esilio. Non sa cosa far qui, e si sente come ospite di se stesso. In seguito,
quando errerà malinconico per la patria terra e poi per le terre straniere,
egli, come uomo incontestabilmente intelligente e sincero, ancora di più si
sentirà straniero a se stesso in mezzo agli stranieri. E' vero, egli ama la
patria terra, ma non ha fiducia in essa. Certo, ha sentito parlare degli ideali
della patria, ma non ci crede. Crede soltanto nell'assoluta impossibilità di
qualsiasi lavoro nella terra patria e coloro che hanno fede in questa possibilità
-allora, come anche adesso, pochissimi- sono da lui scherniti malinconicamente.
Egli ha ammazzato Lenskij semplicemente per noia, chissà, forse per la noia e
la nostalgia dell'ideale universale -ciò si confarrebbe moltissimo al nostro
modo di fare. Tat'jana non è così: ella è un tipo energico, che sta
fermamente sul suo terreno. Ella è più profonda di Onegin e, certo, più
intelligente di lui. Ella già soltanto col suo nobile istinto, intuisce dove e
in che cosa sia la verità; il che viene espresso da lei verso la fine del
poema. Forse, Puskin avrebbe fatto anche meglio se avesse dato al suo poema il
nome di Tat'jana anziché quello di Onegin, perché incontestabilmente ella ne
è l'eroe principale. Ella è un tipo positivo e non negativo, un tipo di
bellezza positiva, l'apoteosi della donna russa ed è a lei che il poeta ha
fatto esprimere l'idea centrale del poema nella famosa scena dell'ultimo
incontro con Onegin. Si può dire che una tale bellezza positiva di tipo di
donna russa non si sia quasi più ripetuta nella nostra letteratura, ad
eccezione forse dell'immagine di Liza nel Nido
di nobili di Turgenev. Ma il modo di guardare le persone dall'alto in basso
ha fatto sì che Onegin non comprendesse affatto Tat'jana, nel loro primo
incontro in campagna, quando ella, nel modesto aspetto di ragazza pura e
innocente, fu tutta timida davanti a lui. Egli non seppe distinguere nella
povera ragazzina la compiutezza e la reale perfezione, forse la prese per un
"embrione morale". Ella un embrione e ciò dopo la sua lettera a
Onegin! Se c'è un embrione morale nel poema, questi è certo lo stesso Onegin,
indiscutibilmente. Ma egli non era neppure in grado di comprenderla: conosceva
egli forse l'animo umano? Egli è un uomo astratto, un sognatore irrequieto per
tutta la sua vita. Non la comprende neanche più tardi a Pietroburgo, quando
ella gli si presenta sotto l'aspetto di una grande dama; nella sua lettera egli
le dice di "concepire con l'animo tutte le sue perfezioni". Ma queste
sono soltanto parole! Ella è passata nella sua vita sconosciuta e non
apprezzata: è qui la tragedia del loro romanzo. Oh, se allora in campagna, al
loro primo incontro fosse venuto dall'Inghilterra Childe-Harold o addirittura
lord Byron stesso e, notando il suo fascino timido e modesto, l'avesse indicata
ad Onegin, questi ne sarebbe stato subito colpito e sorpreso, perché in questi
martiri mondiali c'è talvolta tanta servilità morale! Ma ciò non avvenne; e
il cercatore dell'armonia universale, dopo averle letto una predica ed aver
agito tuttavia molto onestamente, se ne va con la sua malinconia universale e le
mani insanguinate in conseguenza di una stupida collera, errando per la patria,
senza neppure accorgersi di essa e, rigurgitando di salute e di forza, scoppia
in maledizioni:
Giovane e sana è l'esistenza mia;
cosa aspettare ormai? Malinconia!
Questo ha compreso Tat'jana. Nelle sue strofe
immortali il poeta ce la rappresenta mentre visita la casa di quest'uomo per lei
ancora meraviglioso ed enigmatico. Io già non parlo della perfezione artistica,
della bellezza e profondità inarrivabile di queste strofe. Eccola nello studio
di lui, che esamina i suoi libri, i suoi oggetti e si sforza di indovinare da
essi l'anima di lui, risolvere l'enigma, e l'"embrione morale" si
ferma finalmente sopra pensiero, con un sorriso strano, col presentimento della
soluzione dell'enigma e le sue labbra sussurrano:
Che non sia altro che una parodia?
Sì, ella doveva sussurrare ciò, ella aveva risolto
l'enigma. A Pietroburgo poi, molto più tardi, al loro nuovo incontro, ella lo
conosce già perfettamente. A proposito, chi è stato che ha affermato che la
vita mondana aveva fatto sì che ella respingesse Onegin? No, non fu così. Ella
era sempre la stessa Tat'jana di una volta! No, ella non è guastata; al
contrario, ella odia il suo rango di dama di mondo, e chi la giudica
diversamente, non ha capito affatto quel che ha voluto dire Puskin. Ed ella dice
fermamente ad Onegin:
Ma ad un altro uomo è la mia sorte unita,
sarò fedele a lui tutta la vita.
Ed ha espresso così il sentimento della donna russa,
e in ciò è la sua apoteosi. Ella esprime la verità del poema. Oh, io non dirò
neppure una parola sulle sue convinzioni religiose, sulle sue opinioni intorno
al matrimonio, no, io non me ne occuperò. E che? Perché rifiuta di seguirlo ad
onta che gli ha detto: "Vi amo", forse perché come "donna
russa" (e non meridionale o francese) è incapace di fare un passo ardito,
e di spezzare le sue catene, non ha la forza di rinunziare al fascino degli
onori, della ricchezza, della sua posizione nel mondo, alle esigenze della virtù?
La donna russa è ardita. La donna russa seguirà coraggiosamente colui in cui
avrà fede, e lo ha già dimostrato. Ma ella "appartiene ad un altro e gli
sarà eternamente fedele". A chi, a che cosa sarà fedele? A quali doveri?
A quel vecchio generale, ch'ella non ama, perché ama Onegin, e che ha sposato
soltanto perché sua madre "implorava e supplicava con le lacrime agli
occhi", e nella sua anima offesa e ferita non c'era che la disperazione e
nessuna speranza, nessuna luce? Sì, fedele a questo generale, a suo marito,
uomo onesto, che l'ama, la rispetta ed è orgoglioso di lei. E' vero che l'ha
"supplicata la madre", ma è ben lei e non un'altra che ha
acconsentito, è ben lei che gli ha giurato di essere una donna onesta. È vero
che ella ha sposato per disperazione, ma adesso egli è suo marito, e il suo
tradimento lo coprirebbe di disonore, di vergogna e lo condurrebbe alla tomba.
Può l'uomo fondare la propria felicità sull'infelicità altrui? La felicità
non è soltanto nei piaceri dell'amore, ma in una superiore armonia dell'animo.
Come tranquillizzare l'animo, se dietro di noi sta un'azione impura, spietata,
inumana? Ma deve ella fuggire soltanto perchè qui c'è la sua felicità? Ma
quale felicità può essere quella fondata sulla infelicità degli altri?
Immaginatevi di erigere voi stessi l'edificio del destino umano con lo scopo
ultimo di rendere felici gli uomini e dar loro la pace e la tranquillità. E
immaginatevi ancora che per questo sia necessario, inevitabile di tormentare
fino alla morte una creatura umana soltanto, - sia pure un essere di poco
valore, o addirittura ridicolo, non uno Shakespeare, no, ma semplicemente un
onesto vecchio, marito di una giovane, nel cui amore egli ha fede cieca, sebbene
non ne conosca il cuore, che rispetta e di cui è orgoglioso, felice e
tranquillo. Ed ecco che soltanto costui dovete disonorare, coprir di vergogna e
tormentare fino alla morte, e sulle lacrime di questo vecchio disonorato erigere
il vostro edificio. Accetterete di essere l'architetto di questo edificio a tale
condizione? Ecco la questione. E potete voi ammettere anche per un minuto l'idea
che coloro, per i quali avete eretto questo edificio, accetteranno da voi una
simile felicità, se a base di essa sarà posta la sofferenza di un essere sia
pure insignificante, ma che è stato fatto morire senza pietà e ingiustamente;
e che, accettatala, saranno eternamente felici? Dite, poteva decidere
diversamente Tat'jana, dato il suo animo superiore ed il suo cuore che aveva
tanto sofferto? No. Una pura anima russa deciderà così: "Sia pure che io
sola sia privata della felicità , sia pure che la mia infelicità sia
smisuratamente più forte della felicità di questo vecchio, sia pure infine che
nessuno mai, compreso questo vecchio, sappia niente del mio sacrifico e nessuno
l'apprezzi, ma io non voglio essere felice sulla rovina di un altro!". Qui
è la tragedia; essa si compie e non si può varcare il limite, è già tardi e
Tat'jana respinge Onegin. Si dirà: ma è infelice anche Onegin; ella ha salvato
uno, ma ha rovinato un altro. Questa è un'altra questione, e forse la più
importante del poema. La questione perchè Tat'jana non abbia seguito Onegin ha
da noi, o almeno nella nostra letteratura, una storia molto caratteristica, ed
è per questo che mi sono permesso di dilungarmi su di essa. E quel che è più
caratteristico è che la soluzione morale di questa questione è stata per lungo
tempo messa in dubbio. Ecco la mia opinione: anche se Tat'jana fosse rimasta
libera, se fosse morto il suo vecchio marito ed ella fosse rimasta vedova, anche
in questo caso ella non avrebbe seguito Onegin. Bisogna infine comprendere tutta
la sostanza del suo carattere. Ella sa chi è Onegin. L'eterno vagabondo vede la
donna, che egli prima ha trascurato, in un nuovo ambiente brillante a lui
inaccessibile. Ecco, forse è proprio in questo ambiente tutta la questione. A
questa fanciulla che egli ha quasi disprezzata, adesso rende omaggio tutto il
mondo, questa tremenda autorità per Onegin, ad onta di tutte le sue aspirazioni
universali. Ecco perchè egli si slancia abbagliato verso di lei. "Ecco il
mio ideale", esclama egli, "ecco la mia salvezza, ecco la via d'uscita
alla mia tristezza. Ed io non me ne sono accorto, e la felicità era così
possibile, così vicina". E come prima Aleko verso Zenfira, così egli si
slancia verso Tat'jana, cercando nella nuova bizzarra fantasia la soluzione di
tutti i suoi dubbi. Che forse Tat'jana non vede questo in lui, non l'ha già
veduto da molto tempo? Egli sa fermamente che in sostanza egli ama soltanto la
sua nuova fantasia e non lei, e non la Tat'jana ancora umile come prima. Ella sa
che egli la prende per qualche cosa di diverso e non per quello che è
realmente, che egli non ama lei e forse non ama nessuno e che non è neppure
capace di amare qualcuno, nonostante la sua sofferenza. Ama la fantasia, anzi,
egli stesso è una fantasia. Se ella lo seguisse, egli sarebbe già deluso
l'indomani e parlerebbe con tono canzonatorio del suo stesso entusiasmo. Egli
non ha alcuna base; è un filo d'erba in balia del vento. Non così Tat'jana: in
lei, anche nella disperazione, anche nella tormentosa coscienza che la sua vita
è distrutta, c'è sempre qualche cosa di fermo, di incrollabile, su cui si
appoggia la sua anima. Sono i ricordi della sua infanzia, del suo paese nativo,
della sua campagna deserta, in cui era cominciata la sua vita pura ed umile -
"la croce e l'ombra dei rami sulla tomba della sua povera njanja". Questi ricordi e queste immagini soltanto le sono
rimaste, ma sono esse che salvano il suo animo dalla disperazione definitiva. Ciò
non è poco, no, anzi è molto, perchè è tutta una base, qualche cosa di fermo
e d'incrollabile. C'è qui il contatto con la propria terra e il proprio popolo,
con tutto ciò che esso ha di sacro. Ma egli che ha e di chi è? Non vorrete
mica che ella lo segua per compassione, per consolarlo, per donargli almeno
momentaneamente, per l'infinita pietà dell'amore, l'illusione della felicità,
sapendo fermamente in precedenza che il giorno dopo egli guarderà con aria
canzonatoria questa stessa felicità! No, vi sono delle anime profonde e ferme
che non possono in coscienza dare all'obbrobrio tutto ciò che hanno di più
sacro, neanche per una sconfinata pietà. No, Tat'jana non poteva seguire Onegin.
Dunque, in Onegin,
in questo immortale ed inarrivabile poema, Puskin si rivelò grande poeta
popolare, come nessuno mai prima di lui. In una volta sola, nel modo più
preciso e perspicace, ha mostrato la vera profondità del nostro essere, della
nostra società postasi al di sopra del popolo, dipingendoci questo tipo di
vagabondo russo, esistente ancora ai nostri giorni; egli per il primo ha
intuito, con l'autentica intuizione del genio, il suo destino storico e
l'immenso suo significato anche per il nostro destino futuro e ha saputo
mettergli accanto un tipo positivo di incontestabile bellezza, nella figura
della vera donna russa.
Ma anche nelle altre sue opere, del resto, egli ci
presenta una serie di bellissimi positivi tipi russi, presi direttamente dal
popolo. La maggiore bellezza di questi tipi è nella loro verità, verità
incontestabile e palpabile, tale che non è possibile negarla. Essi stanno
davanti a noi come scolpiti. Ricorderò ancora una volta che io non parlo come
critico letterario, e perciò non mi accingerò a dimostrare la mia idea con una
esemplificazione dettagliata di queste opere geniali del nostro poeta. Il tipo
del monaco russo, scrittore di cronache, per esempio; si potrebbe scrivere un
libro, per dimostrare tutta l'importanza e il significato di questa maestosa
figura russa, trovata da Puskin nella terra russa, da lui rappresentata, da lui
scolpita e messa davanti a noi per l'eternità nella sua incontestabile, umile e
maestosa bellezza spirituale, quale testimonianza di quel potente spirito
popolare, capace di produrre figure di così grandiosa e incontestabile verità.
Questo tipo esiste, non lo si può contestare; dire che è una invenzione, che
è soltanto una fantasia e idealizzazione del poeta, è assurdo. Voi stessi
osservate e convenite con me: sì, questo tipo esiste, vuol dire che anche lo
spirito del popolo, che l'ha creato esiste, vuol dire che anche la forza vitale
di questo spirito esiste ed è grande e smisurata. Dappertutto in Puskin si
sente la fede nel carattere russo, la fede nella forza dell'animo suo e quando
c'è la fede, vuol dire che c'è anche la speranza, la grande speranza per
l'uomo russo:
Nella speranza della gloria e del bene,
io guardo senza timore davanti a me,
disse il poeta stesso in altra occasione, ma le sue
parole si possono direttamente adattare a tutta la sua attività nazionale
creativa. Mai un poeta russo, né prima né dopo di Puskin, si è unito così
intimamente, cuore e sangue, col suo popolo, come lui. Oh, sì, noi abbiamo
molti conoscitori del popolo fra gli scrittori, che hanno scritto del popolo con
grande ingegno e tanta giustezza e tanto affetto, ma intanto se si paragonano
con Puskin, davvero, ad eccezione di uno, o al massimo di due degli ultimi suoi
successori, essi non sono altro che signori che scrivono intorno al popolo.
Anche nei migliori fra loro, anche in queste eccezioni, a cui or ora ho
accennato, si sente sempre, prima o dopo, un certo tono altero, qualche cosa di
un'altra vita, di un altro mondo, il tomo di chi si degna di innalzare il popolo
fino a sé, credendo così di renderlo felice. In Puskin invece c'è qualcosa
che si avvicina e si fonde col popolo, una reale familiarità che arriva fino ad
un ingenuo intenerimento. Prendete, per esempio, la leggenda dell'orso e del
contadino che ha ammazzata la femmina dell'orso e ricordatevi i versi:
Compare Ivan, quando ci metteremo a
bere...
E voi comprendete ciò che io voglio dire.
Tutti questi tesori di arte e di chiaroveggenza
artistica ci sono stati lasciati dal nostro grande poeta, come ammaestramento ai
futuri artisti, a coloro che lavoreranno dopo di lui nello stesso campo.
Positivamente si può dire: se non ci fosse stato Puskin non ci sarebbero stati
gli ingegni che sono venuti dopo di lui. O almeno non si sarebbero manifestati
con tale chiarezza, nonostante le loro grandi doti. Ma la questione non è
soltanto nella poesia, non è soltanto nella creazione artistica: se non ci
fosse stato Puskin non sarebbe stata espressa, forse, con tanta incrollabile
forza, la nostra fede nella nostra indipendenza russa, la nostra speranza, già
cosciente nelle forze del nostro popolo, e poi la fede nella missione futura
indipendente nella famiglia dei popoli europei. Questo merito di Puskin si
chiarisce in modo speciale, se si approfondisce ciò che io chiamo il terzo
periodo della sua attività artistica.
Ancora e ancora una volta ripeto: questi pericoli non
hanno dei limiti così precisi. Alcune delle opere anche del terzo periodo,
potevano, per esempio, apparire nel primissimo periodo dell'attività artistica
del nostro poeta, perchè Puskin è stato sempre un organismo intero, per così
dire compatto, che portava i suoi concepimenti dentro di sé fin dal principio
senza prenderli dal di fuori. Il
mondo esteriore non faceva che svegliare in lui ciò che era già rinchiuso nel
profondo del suo animo. Ma questo organismo si sviluppava e i periodi di questo
sviluppo si possono veramente indicare e notare, avendo ognuno di essi il suo
carattere speciale e dipendendo l'uno dall'altro. Così, al terzo periodo si
possono riferire quelle sue opere, in cui brillarono in prevalenza le idee
universali, si rifletterono le immagini poetiche degli altri popoli. Alcune di
queste opere furono pubblicate solo dopo la morte di Puskin. In questo periodo
della sua attività il nostro poeta ha in sé qualche cosa di così potente, di
quasi divino, qualche cosa di mai udito e di mai visto prima di lui da nessuno e
in nessun luogo.
In verità, nelle letterature europee ci sono stati
dei geni artistici di enorme grandezza -come Shakespeare, Cervantes, Schiller.
Ma trovate anche uno solo di questi geni che possieda tale facoltà di
rispondenza e simpatia universale come il nostro Puskin. E proprio questa dote,
questa facoltà, che è la più importante della nostra nazionalità, egli la
condivide precisamente con il nostro popolo e perciò egli è il vero poeta del
popolo. I più grandi fra i poeti europei non hanno mai potuto incarnare in sé
con tale forza il genio di un popolo straniero, per quanto vicino al loro animo
e tutta la tristezza della sua missione, come l'ha fatto Puskin. Al contrario,
scegliendo i loro eroi in nazionalità straniere, i poeti europei hanno finito
sempre col dar loro i caratteri della propria nazionalità, rifacendoli a modo
loro. Perfino in Shakespeare, per esempio, gli eroi italiani sono quasi tutti
dei veri inglesi. Solo Puskin fra tutti i poeti mondiali, possiede il dono di
incarnarsi completamente in un nazionalità straniera. Ecco la scena del Faust, ecco Il cavaliere avaro
e la ballata Il festino durante la peste!
E intanto in queste immagini fantastiche si sente il genio dell'Inghilterra;
questa splendida canzone della peste dell'eroe del poema, questo canto di Mary
con i versi:
Dei nostri bimbi nella scuola
rumorosa
Si sentivano le voci...
Sono canzoni inglesi, ci dicono la malinconia del
genio britannico, il suo pianto, il presentimento doloroso del suo avvenire.
Ricordate i versi:
Errando un giorno in mezzo ad una
valle selvaggia.
È la trascrizione quasi letterale delle prime tre
pagine di uno strano e mistico libro, scritto in prosa da un antico settario
religioso inglese -ma è soltanto una trascrizione? Nella malinconica ed
esaltata musica di questi versi si sente l'anima stessa del protestantesimo
nordico, dello sconfinato eretico misticismo inglese, fatto di attese tetre e di
invincibili aspirazioni. Leggendo questi versi strani, vi sembra di sentire lo
spirito dei secoli della Riforma, vi diventa comprensibile questo fuoco
guerresco, che cominciava allora ad ardere, vi diventa comprensibile infine la
storia stessa, e non del pensiero soltanto; è come se voi ci foste stato
personalmente: siete passato davanti al campo armato dei settari, avete cantato
insieme a loro gli inni, avete pianto insieme a loro nei loro trasporti mistici
e avete creduto insieme a loro a ciò che essi hanno creduto. A proposito: ecco
accanto a questo misticismo religioso, le strofe del Corano o Imitazione del Corano:
non è un musulmano qui, non è questo lo spirito stesso del Corano
e la sua spada, l'ingenua maestosità della fede e la minacciosa, sanguinosa sua
forza? Ed ecco il mondo antico, ecco le Notti
egiziane, ecco gli dei terrestri, dispregiatori del genio popolare e delle
sue aspirazioni, che non hanno più fede in esso, porsi al disopra del popolo
stesso come veri dei, ma isolati ed impazziti nel loro isolamento, che, nella
noia e tristezza dell'agonia, si divertono con fantastiche ferocità, con la
voluttà della femmina del ragno che divora il suo maschio. No, lo affermo
categoricamente, non c'è stato un altro poeta che abbia avuto tale rispondenza
mondiale come Puskin; e poi non si tratta soltanto della sua rispondenza
mondiale ma della sorprendente sua profondità, della capacità del suo spirito
a far proprio lo spirito dei popoli stranieri, a reincarnarli in sé quasi
perfettamente. In nessun luogo, in nessun poeta del mondo si è ripetuto un
simile fenomeno. Ciò è soltanto di Puskin e in questo senso, ripeto, egli è
un fenomeno inaudito e mai visto, e, secondo me, anche profetico, perchè -perchè
proprio qui, in questa qualità, trova più che mai la sua espressione la sua
forza russa nazionale, il carattere popolare della sua poesia, della sua
evoluzione, dell'avvenire di tutto il popolo russo; è in ciò il suo carattere
profetico. Perchè, cosa è la forza dello spirito del popolo russo, se non la
sua aspirazione, nella sua meta ultima, all'universalità e all'umanità? Non
appena divenne poeta popolare, non appena fu a contatto della forza del popolo,
Puskin sentì immediatamente la grande futura missione di questa forza. In
questo egli è divinatore, in questo egli è profeta. Infatti, cos'è per noi la
riforma di Pietro, e non soltanto per l'avvenire ma anche in ciò che è già
stato, si è compiuto, in ciò che è accaduto davanti ai nostri occhi? Che cosa
ha significato per noi questa riforma? Essa non fu per noi soltanto
l'appropriazione dei costumi europei; osserviamola un po' più attentamente. Sì,
può darsi che Pietro da principio soltanto in questo senso cominciasse la sua
riforma, nel senso cioè di una utilità immediata, ma più tardi,
nell'ulteriore sviluppo della sua idea, egli obbedì a una certa intuizione
segreta, che lo trascinava, nella sua opera, verso degli scopi futuri,
indubbiamente più grandi dell'immediato utilitarismo. Allo stesso modo anche il
popolo russo non per l'utilitarismo soltanto accettò la riforma, ma perchè
presentiva uno scopo più lontano, ma senza paragone più alto dell'utilitarismo
immediato, in forza, ripeto, del suo sentimento inconscio, spontaneo e vitale.
Così, d'un colpo, ci siamo sollevati alla concezione
di una più vitale unione, alla concezione dell'unione di tutta l'umanità! Noi
abbiamo accettato nel nostro animo, senza ostilità (come avrebbe potuto anche
accadere), ma amichevolmente, con pieno affetto, i geni delle nazioni straniere,
tutti insieme, senza fare differenza di privilegi, di razze, sapendo
istintivamente, quasi dal primissimo passo, distinguere le differenze, eliminare
le contraddizioni, perdonare e conciliare le divergenze, dimostrando già anche
solo con questo la nostra disposizione e inclinazione all'unione universale di
tutti i popoli della grande razza ariana. Sì, la missione dell'uomo russo è
incontestabilmente paneuropea e universale. Diventare un vero russo, diventare
completamente russo, forse, significa soltanto (in fine, notate bene questo)
diventar fratello di tutti gli uomini, uomo universale, se volete. Oh, tutto
questo nostro slavofilismo, questo nostro occidentalismo non sono altro che un
grande malinteso, per quanto storicamente necessario. Ad un vero russo l'Europa
e il destino di tutta la grande razza ariana stanno tanto a cuore quanto la
Russia stessa, quanto il destino del proprio paese, perchè il nostro destino è
l'universalità, acquistata non con la spada, ma con la forza della fratellanza
e dell'aspirazione fraterna nell'unione di tutti gli uomini. Se approfondirete
la nostra storia dopo la riforma di Pietro, troverete le tracce di questa idea,
di questo mio sogno, se volete, nel carattere delle nostre relazioni con le
stirpi europee, perfino nella politica del nostro Stato. Perchè, cosa ha fatto
la Russia durante tutti questi due secoli nella sua politica, se non servire
l'Europa e, forse, molto più che se stessa? Non credo che questo sia avvenuto
per l'insipienza dei nostri uomini politici. I popoli d'Europa non lo sanno
neppure, quanto essi ci sono cari! E più tardi, io ne ho piena fede, noi, cioè
non noi personalmente, ma coloro che verranno, i futuri russi comprenderanno
tutti, dal primo all'ultimo, che diventare un vero russo significherà
precisamente aspirare alla definitiva riconciliazione delle contraddizioni
europee, mostrare la via di uscita alla tristezza europea; l'animo russo,
profondamente umano, saprà abbracciare con amore fraterno tutti i nostri
fratelli, e alla fine, forse, dirà la definitiva parola della grande armonia
universale, dell'accordo definitivo fraterno di tutte le razze, secondo la legge
evangelica di Cristo! Lo so, lo so anche troppo bene, che le mie parole possono
sembrare esaltate, esagerate e fantastiche. Sia, ma io non mi pento di averle
pronunziate. Ciò doveva essere detto, e specialmente adesso, nel momento della
nostra fede solenne, nel momento delle onoranze del nostro grande genio, che ha
incarnato precisamente questa idea nella sua forza artistica. Questa idea è
stata già espressa e non una volta sola ed io non dico niente di nuovo. Ma
probabilmente tutto ciò sembrerà pretenzioso: a noi, alla nostra misera e
rozza terra un tale destino? A noi il destino di dire la nuova parola all'umanità?
Ebbene, parlo io forse della gloria economica o della gloria nella scienza? Io
parlo soltanto della fratellanza degli uomini, e a raggiungere l'unione
universale di tutti gli uomini come fratelli, il cuore russo è forse destinato
più degli altri. Io vedo queste tracce nella nostra storia, nei nostri uomini
di talento, nel genio artistico di Puskin,. Sia pure misera la nostra terra, ma
è su questa terra misera che è passato "Cristo, in abito umile,
benedicendola". Perchè dunque non possiamo noi racchiudere in noi la sua
ultima parola? E non è nato egli stesso in una stella? Ripeto, noi almeno
possiamo presentare Puskin, l'universalità del cui genio abbraccia in sé tutti
gli uomini. Egli ha potuto racchiudere in sé, nel suo animo, geni stranieri,
come fossero della sua terra. Nell'arte infine, nella sua creazione artistica
egli ha espresso questa universalità delle aspirazioni dell'animo russo, e
questo è già in sé un grande presagio. Se la nostra idea è una fantasia,
questa fantasia ha in Puskin il suo fondamento. Se egli fosse vissuto più a
lungo, avrebbe creato altre figure immortali dell'animo russo, più
comprensibili ai nostri fratelli europei, li avrebbe attirati a noi molto più
di quanto non lo siano adesso e forse avrebbe potuto rischiarar loro tutta la
verità delle nostre aspirazioni, ed essi ci avrebbero compreso più di quanto
non ci comprendano adesso, avrebbero cessato di guardarci con la sfiducia e
l'alterigia con cui ci guardano ancora adesso. Se egli fosse vissuto più a
lungo, forse tra noi ci sarebbero meno malintesi e contese, di quanti ne
vediamo. Ma Dio ha giudicato diversamente. Puskin è morto nel pieno fiore delle
sue forze, portando certamente con sé nella tomba un grande segreto. Tocca ora
a noi di svelare questo segreto senza di lui!